Che cosa sono le nuvole – Pasolini e la vita umana
Prima parte (vai alla seconda)
Nei lamenti come nelle tragedie e nelle commedie, non solo sulla scena, ma anche nell’intera tragedia e commedia della vita, e anche in altri infiniti casi, dolori e piaceri si mescolano insieme
Platone, Filebo 50B1-5
Quarto dei sei episodi che compongono Capriccio all’italiana, Che cosa sono le nuvole è uno dei capolavori della cinematografia italiana. In questo cortometraggio PierPaolo Pasolini abbandona l’approfondimento ideologico e sociale che caratterizza la sua produzione per affrontare in maniera precipua tematiche di tipo esistenziale. É ardua impresa dare una lettura esaustiva di tutte le implicazioni simboliche presenti nella narrazione scenica, tuttavia cercherò di offrire alcuni spunti di riflessione tratti dalla visione del corto che, per brevità (dura poco più di 20 minuti) e profondità, si potrebbe definire ermetico.
Che cosa sono le nuvole è una allegoria della vita nel suo percorso che va dalla nascita alla morte, interpretata da personaggi che sono metà uomini e metà marionetta che a loro volta dovranno interpretare l’Otello di Shakespeare (con Ninetto Davoli nella parte di Otello, Totò in quella di Iago, Laura Betti in quello di Desdemona, Franco Franchi in quella di Cassio e Ciccio Ingrassia in quella di Roderigo). Un sogno dentro un sogno, una tragedia nella tragedia nella quale finzione e realtà si intrecciano talmente profondamente da essere indistinguibili come nel quadro Las Meninas di Velazquez nel quale il pittore dipinge se stesso nell’atto di dipingere o La condizione umana di Magritte nel quale non esiste una linea di demarcazione fra il dipinto e la cornice.
La nascita viene rappresentata nella prima scena: la marionetta di Otello viene trasportata nello sgabuzzino dove si trovano tutte le altre; immediatamente chiede perché si sente così felice.
«Perché son così contento? – Perché sei nato! – E che vuol dire che sono nato? – Vuol dire che ci sei». Iago definisce la nascita, l’essere gettati nel mondo, secondo la classificazione dell’ontologia tradizionale attraverso la categoria della presenza il “ci sei”, sei presente, sei qui. Darò una interpretazione di tipo esistenziale utilizzando la terminologia di Heidegger di Essere e Tempo. Etimologicamente “esistenza” viene dal latino Ex-sistentia, laddove “ex” determina una dimensione del “fuori, una relazionalità originaria coessenziale all’essere dell’Esserci, il Dasein, l’uomo. L’essere dell’uomo è la possibilità, il poter-essere, che trova nel suo essere-nel-mondo (In-der-Welt-Sein) la sua modalità d’essere originaria. L’ “essere-in” indica un Habitus, una familiarità, un sentirsi a proprio agio (a casa) . Essere-nel-mondo è però un essere-in-relazione-a altri Esserci, ad altri esseri umani. In-der-Welt-Sein è Mit-Sein, Con-Essere.
La prima azione che Otello compie infatti è rivolgersi verso l’esterno per parlare, domandare; stabilisce una relazione attraverso il linguaggio. Le parole sono i ponti con le quali l’essere umano mette in atto quella modalità d’essere che gli è originaria del suo essere-in-relazione-a.
Una ambiguità di fondo tuttavia permea tutta l’esistenza, una duplicità la cui consapevolezza può essere tragica, l’appartenenza al processo del divenire per il quale tutto ciò che ha inizio, inevitabilmente ha fine. Sulla nascita di Otello incombe fin da subito la presenza del “mondezzaro” (interpretato da Massimo Modugno).
«E questo chi è?» – domanda Otello – «É il mondezzaro che canta – Il mondezzaro! E che fa? – É uno che viene e se ne va. Viene, prende i morti e se ne va».
Il mondezzaro rappresenta questo processo di creazione-distruzione-trasformazione che accomuna ogni genere di ente e permette la conservazione della Vita in generale. Tale conservazione necessita però del “sacrificio” delle vite particolari verso le quali ha un atteggiamento di indifferenza. Proprio perché indifferente a qualsiasi differenza, il processo del divenire, come teorizzato da Nietzsche è innocente (il canto del mondezzaro). É una innocenza di tipo diverso da quella del neonato Otello che può ricordare, solo per alcuni versi, quella fantasticata da J.J Rosseau nella figura del “buon selvaggio”, un tipo di innocenza che viene uccisa dalla scoperta della ambiguità, la compresenza, nella vita umana, di bene e di male, di verità e di menzogna «Ammazza Iago, io te credevo tanto bono, tanto onesto, un pezzo di pane e invece quanto sei cattivo!».
Se finzione e realtà sono indissolubilmente legate, tutto può essere relativo; di ogni fatto, di ogni azione si possono dare molteplici spiegazioni. Nietzsche, ragionando intorno al principio di realtà afferma ne La volontà di potenza, che “I fatti non esistono, esistono solo interpretazioni”.
Otello è sconvolto dalla relatività di ogni realtà umana e domanda a Iago:
«Quale è la verità? Quello che penso io di me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là (il Burattinaio che muove le marionette sul palco)?» – Cosa senti dentro di te? – Si, si, si sente qualcosa che c’è! – Quella è la verità ma, shhhh non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più –
Sulla duplicità della realtà si stende un velo di incomunicabilità. Il linguaggio, lo strumento necessario per stabilire relazioni con altri esseri umani, risulta uno strumento difettoso. Attraverso il linguaggio ad esempio si può mentire trasformando un meccanismo di unione in uno di separazione. L’ambiguità è inoltre connaturata al linguaggio stesso: Cause you know sometimes words have two meanings [Perché sai che a volte le parole hanno un doppio significato – Stairway to Heaven – Led Zeppelin]: fra la cosa nominata e il nome vi è una correlazione “per convenzione” e non “per natura”. Il nome non è la cosa; vi è una distanza infinita fra conoscenza linguistica e conoscenza ontologica dell’essenza.
Il pensiero occidentale ha seguito un percorso di formalizzazione attraverso il concetto di verità come corrispondenza, limitato ad un ambito logico-linguistico. Se ho una penna in mano e affermo “Questa è una penna” sto dicendo una verità perchè vi è una corrispondenza fra il mio atto linguistico e la cosa.
Il termine greco per verità è αληθεια [aletheia] un privativo che ha doppio significato: ciò che non è dimenticato e ciò che non è velato, lo s-velato (è interessante notare come abbia ancora qualche riflesso in espressioni quali “svelare un segreto”). Mentre la “verità come corrispondenza” definisce la verità come una proprietà dell’oggetto da poter acquisire al pari di qualsiasi altra cosa, la verità come s-velatezza ha la qualità di Evento che accade nella vita dell’uomo ed ha un carattere privato e indicibile. Alla διάνοια [dianoia], la conoscenza razionale discorsiva da cui deriva il concetto di ratio, la ragione logico-matematica dei moderni, si sovrappone il νους [nous], l’Intelletto che può cogliere con un atto (auto)riflessivo e immediato (pertanto αρρηθος [arrethos], indicibile) le realtà ultime, slegate da ogni sostrato materiale. La grande differenza fra la ragione greca e quella moderna sta nell’aver spostato il concetto di verità da atto noetico a processo razionale.
Esistono tuttavia delle aporie anche all’interno della “ragione”.
Nominare è un atto attributivo di qualificazione che, rendendo comune ciò che viene nominato, lo getta in una sorta di “mercato ermeneutico”. Il nostro pensiero è di tipo “rappresentativo”. Nell’atto stesso in cui nomino qualcosa, creo una immagine mentale. Ad esempio nel momento in cui dico “casa” si forma l’immagine mentale ad essa corrispondente. “Casa” però ha sia un significato denotativo (la definizione da vocabolario, “luogo per abitare”) sia uno connotativo (la carica psicologica associata al termine). La connotazione è il sostrato di incomunicabilità nella comunicazione.
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