La questione delle dottrine non scritte di Platone

Platone e Sankara ovvero dell’unità trascendentale della tradizione – Considerazioni preliminari – La questione delle teorie non scritte di Platone

Con le dottrine non scritte di Platone si intende quella particolare interpretazione che sostiene che il nucleo più profondo della dottrina platonica non sia presente nei dialoghi, ma fosse lasciato all’insegnamento orale ai discepoli dell’Accademia…
 

Platone e Sankara ovvero dell’unità trascendentale della tradizione

Considerazioni preliminari
La questione delle teorie non scritte di Platone

«Pertanto per la chiarezza di ciò che si deve dire è da sapersi che il senso di quest’opera non è unico, anzi può dirsi polisema, cioè di più sensi; infatti, il primo senso è quello che si ha dalla lettera, l’altro è quello che si ha dal significato attraverso la lettera». Così Dante scriveva nell’Epistola a Cangrande della Scala, enunciando quattro chiavi di lettura della Commedia: letterale, allegorica, morale e anagogica o significato spirituale.

Una stessa polisemia è riscontrabile nel corpus platonico. Dobbiamo infatti approcciarci ai Dialoghi  come se fossero un corpo unico, tra loro comunicanti e co-implicanti nella loro polisemia di significati, fenomenologico, ontologico e metafisico. Obiettivo di questo studio è guardare al senso anagogico (ovvero metafisico) del pensiero platonico e nel fare questo, attraverso rimandi e confronti con altre tradizioni, mostrare il nucleo di una Tradizione Metafisica, intesa come unità trascendentale delle tradizioni. Parlare di metafisica è un passo oltre la filosofia. Filosofia, nel suo significato letterale è “amore per la conoscenza”, una “tensione-a” e “desiderio di” (in quanto Ερως – Eros)  Conoscenza-Gnosi. «Sia costui, quindi, sia chiunque altro desideri, desidera ciò di cui non dispone e ciò che non gli è presente; ciò che non possiede, ciò che egli stesso non è, ciò di cui è mancante: non sono forse di questa natura gli oggetti cui si rivolgono sia il desiderio sia l’amore?» [Simposio, 200e 2-5; , Adelphi, Milano, 2002, p.63]. Il discorso filosofico concerne l’aspetto fenomenologico e ontologico come gymnasia, preparazione a ciò che la filosofia non è ma a cui tende, ovvero alla Sophia, l’ambito della Metafisica.

Prima di andare oltre è però cogente ragionare intorno a tre aspetti preliminari: 1. la questione delle dottrine non-scritte; 2. il rapporto tra Platone con la spiritualità greca (orfismo, misteri eleusini); 3. la gerarchia fra stati di essere e le correlazioni con i vari aspetti conoscitivi.

LA QUESTIONE DELLE DOTTRINE NON SCRITTE

Per dottrine non scritte si intende quella particolare interpretazione di Platone che, prendendo le mosse da alcuni passi della Repubblica, del Filebo, della Lettera VII, sostiene che il nucleo più profondo della dottrina platonica (il Bene, l’Uno e la Diade del grande e del piccolo) non sia presente nei dialoghi, ma fosse lasciato all’insegnamento orale ai discepoli dell’Accademia. Questa interpretazione è stata portata in auge della Scuola di Tubinga  in generale e in particolare da Giovanni Reale. Le dottrine non scritte rimanderebbero dunque a un livello superiore di insegnamento orale e riservato; per contro gli scritti dovevano essere rivolti, secondo questa teoria, ad un pubblico profano o ai discepoli novizi. Si parlerebbe dunque di un insegnamento exoterico e di un insegnamento esoterico, inteso in senso meramente spaziale di fuori e dentro il cerchio dei discepoli più vicini al maestro. Sappiamo, come riferito da Giamblico e Porfirio, che questa pratica fosse già presente nei circoli pitagorici nella divisione fra akusmaticoi, la cerchia più esterna dei seguaci, e mathematikoi. Questa interpretazione inoltre prende avvio dallo screditamento della scrittura che Platone rende manifesto a conclusione del Fedro «Infatti la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante estranei, e non dal di dentro e da se medesimi…[275a2-5]…della sapienza, poi tu  procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità…e sarà ben difficile discorrere con loro perché sono diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti»[1][275b3-5].

Tuttavia, un altro esponente della Scuola di Tubinga, il Gaiser, ha proposto una lettura diversa rispetto alla distinzione exoterico/esoterico come insegnamenti fuori e dentro l’Accademia, insegnamento scritto affidato ai Dialoghi e insegnamento orale. Il Gaiser parla di un nucleo esoterico di natura metafisica all’interno degli stessi Dialoghi, un “cuore” di dottrina pura inserito nell’esteriorità della forma (scritta o orale); andando oltre il piano meramente formale, pone come fondamento ultimo non una dottrina concettuale ma una conoscenza vivente. Detto diversamente, l’uno si riferisce all’espressione di una conoscenza, l’altro all’esperienza coscienziale che sta dietro quell’espressione. In maniera analoga il grande filosofo, mistico e sufi Ibn Arabi esprime il rapporto fra exoterismo e esoterismo come la scorza e il nocciolo [El-Qishr wa’l-Lobb]. L’involucro è la scorza, ez-zahir, l’esteriore, mentre il nocciolo è la haqiqah, el-batim, l’interiore che concide con al-qalb, il cuore. Allo stesso modo nel Simposio, Alcibiade descrive Socrate come un Sileno «Giacché affermo per certo che egli assomiglia, in modo perfetto a quei sileni – posti nelle botteghe degli scultori – che gli artigiani elaborano, dotandoli di zampogne e flauti, e i quali, aperti in due, rivelano all’interno di possedere immagini di dei»[2][Simp. 215a11-12, 215b1-4]

La dottrina platonica, come è espresso nel Mito della Caverna, pone una meta definitiva, la conquista di un piano metafisico e la massima realizzazione coscienziale e questo stesso fine metafisico è strutturalmente connesso con le difficoltà di una adeguata possibilità espressiva. La sproporzione deriva dal parlare di Verità ultime che travalicano l’aspetto concepibile dalla ragione umana di tipo rappresentativo, attraverso uno strumento inadeguato che è la parola che è proprio il mezzo espressivo di quella stessa razionalità. Un esempio illuminante è quello che dice Dante nel Canto I del Paradiso [I, 70-73] «Trasumanar significar per verba/ non si poria; però l’esemplo basti/ a cui l’esperienza grazia serba».

Nella Lettera VII Platone afferma «[341c] Questo ho da dire su tutti quelli che hanno scritto e scriveranno, quanti sostengono di conoscere l’oggetto delle mie indagini, sia per averlo ascoltato da me sia da altri: non è possibile, a parer mio, che costoro abbiano capito niente dell’argomento. Certamente non esiste un mio scritto sul tema e mai esisterà. Infatti, non può essere enunciato in nessun modo come gli altri insegnamenti; ma in seguito a una lunga frequentazione del suo oggetto, e dal conviverci, all’improvviso, come una luce che si accende da una scintilla di fuoco, [341d] compare nell’anima e si nutre ormai da sé stesso Se poi avessi ritenuto che fossero da scrivere in modo sufficiente per la massa e fossero comunicabili, quale compito più nobile avrei potuto affrontare nella vita dello scrivere una cosa che è di grande utilità per gli uomini e del portare in piena luce per tutti quanti la natura?[3].

L’impossibilità della comunicazione (scritta e orale) delle dottrine metafisiche, di ciò che travalica la semplice ragione umana, sta nella natura stessa dell’oggetto stesso dell’insegnamento che non può essere appreso per trasmissione indiretta, ma per una esperienza coscienziale del tutto individuale che produce la μετανοειν, la metanoia. L’insegnamento può accompagnare il discepolo fino ad un certo punto, come una preparazione verso qualcosa che va oltre l’insegnamento stesso. Per cogliere le verità ultime è necessario un raccoglimento dell’anima in sé stessa. Nel Fedone, infatti, Platone scrive «Allora, l’anima non ragiona forse nel modo migliore, quando nessuno di questi sensi la turbi, né la vista, né l’udito, né il dolore, ma quando si raccolga il più possibile sola in sé stessa, lasciando il corpo, e, rompendo il contatto e la comunanza con il corpo nella misura in cui può, si protenda verso l’essere?»[65c4-9][4].

Allo stesso modo il saggio sufi iraniano Farid Ad-din Attar ne “Il verbo degli uccelli” [Mantiq at-Tayr] scrive: «Nessuno potrà mai pronunciare un esauriente discorso, vecchio o nuovo che sia sui misteri dell’annientamento e dell’eternità. Poiché Egli è inaccessibile al nostro intelletto, del tutto remota è ogni possibilità di descriverLo compiutamente»[5]

La parola “mistero” è inoltre legata al concetto di inesprimibile poiché in greco, μυστηριου deriva da μυειν che significa tacere, essere silenzioso. Alla stessa radice verbale “mu” (da cui il latino mutus) si riallaccia il termine μυθος (mito) [di cui Platone fa ampio uso per poter parlare, in termini allegorici, di tematiche escatologiche, ad esempio il mito di Er a conclusione della Repubblica].

L’inesprimibile è dunque quella natura profonda che, come già disse Eraclito, ama nascondersi [Physis Krypthesthai philei] e si nasconde velandosi.

[1]Platone, Fedro, Bompiani, Milano 2017p.197
[2]Platone, Simposio, op. Cit. p. 90
[3]Platone, Lettera VII in Platone, Le opere, Vol V, Ed. Newton, Roma, 2005, p. 725
[4]Platone, Fedone, Bombiani, Milano, 2017, p. 111
[5]Farid d-din Attar, Il verbo degli uccelli, Mondadori, Milano, 1997, p.339

Nicola Carboni

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