La relazione io (me) – tu (l’Altro da me)
in Carl Gustav Jung – Parte seconda
Verso il Sé
Ogni essere umano ha una propria vocazione, quella di arrivare a se stesso, quella di trovare il proprio destino (Hermann Hesse). Il destino, comunque, è frutto di una continua costruzione nell’incontro con l’altro, nell’interazione con eventi e accidenti che capitano ogni giorno e ai quali tocca far fronte. Vocazione e destino rientrano di fatto nell’autorealizzazione, quella capacità di assumersi la responsabilità dei propri errori e di reggere frustrazioni e disconferme.
Secondo Freud, l’autorealizzazione la si potrebbe sintetizzare in questo modo. Autorealizzarsi è capacità di amare e instaurare sane relazioni col prossimo; è capacità di lavorare e di relazionarsi in modo equilibrato con la realtà, e più in generale, è capacità di saper gioire e trarre appagamento e soddisfazione dalle esperienze quotidiane (Costruzioni nell’analisi (1937). In Opere, XI, TO 1979). In tutto questo, il me si erge al di sopra del riflesso e del giudizio dell’altro-da-sé (il fuori-di-me) ed è in grado di tessere una relazionalità profonda e selettiva che intensifica solo pochi legami sociali e spontanei. In senso positivo, l’io-me agisce entro un sentimento comunitario (Gemeinschaftsgefuehl) che comporta naturale e spontanea solidarietà con gli altri esseri umani, li comprende, li accetta ma non scade nella sottomissione e nell’accondiscendenza passiva. Tutto questa costruzione conosce però un limite storico-esistenziale: la paura della paura di esser-ci, così come Heidegger definisce l’angoscia esistenziale che pervade molti individui in forme acute o soffuse (Essere e tempo (1927). MI 2006, p. 205 e 274).
Nel 1928 Jung dà alle stampe L’io e l’inconscio (Opere, vol. VII, TO 1982) dove, allo scivolamento indiscriminato e deplorevole del singolo verso la psiche collettiva e il sentimento di massa dell’epoca, il che comporta impersonalità, autoinconsistenza e inautenticità, egli afferma la forza ineludibile della soggettività. Ognuno è l’interprete esistenziale dell’essere nel mondo e dell’esser-ci-così in quanto la sua individualità è la più intima, ultima, incomparabile e singolare peculiarità che possiede (p.173). L’individualità è un principio di singolarità e differenziazione – Adler, nello stesso torno di tempo, definisce l’individualità una costruzione volontaria e consapevole da non confondere con un impulso originario-, è una tendenza a separarsi e a distinguersi dalla collettività e in quanto tale fa resistenza agli eccessi esclusivi dell’inconscio collettivo. L’individualità o fattore individuale è un principio archetipico che impronta singolarità e unicità dell’essere. Dunque, l’individuale è scorporato dal mondo, e pare muoversi in contrasto col fuori di sé, col collettivo, supportato da un principio antropologico universale, l’archetipo di individualità. È il ka egiziano (anima personale), è il daimon greco, antenato ancestrale, angelo custode e protettore. Che cos’è allora che ci fa avere atteggiamenti e comportamenti rispondenti a modelli collettivi, ad aspettative sociali di massa omologanti che, nostro malgrado, ci tengono in stretta relazione dipendente dal mondo? È l’archetipo della Persona, la maschera, in grado secondo M-L. von Franz (1977, L’individuazione nella fiaba, TO 1987) sia di omologare sia di singolarizzare ma non di percorrere fino in fondo la via dell’individuazione. Il principio individuativo è un lungo percorso col quale la psicologia analitica, in analogia col linguaggio alchemico, intende ‘coagulare’ sentimenti di continuità e permanenza con la percezione del Sé. Ciò avviene quando lo spirito scioglie il corpo (la materia) e libera il massimo grado di coefficiente individuale (la monade e il divino che contiene). Jung trova nella scienza alchemica quelle scansioni e quelle fasi attraverso cui si muove l’individuazione. La soggettività di ogni individuo è ineludibile e unica, e in quanto fattore individuale deve staccarsi dalla comunità (generalità e totalità) così come previsto nel processo alchemico: se con la solutio l’individuale è disciolto (e vincolato) nel collettivo (alla massa), grazie alla coagulatio l’individuale si scorpora dal generale (l’Altro-da-sé) per costituirsi in forma autonoma. Attraverso vari strati di sedimentazione (il vissuto, le relazioni con gli altri, i traumi, ma anche le gioie e i successi) la coagulatio permette di conferire maggiore stabilità al sentimento del sé. In chimica e fisica, e nello stesso modo in alchimia, la coagulatio si ottiene per mezzo di sostanze addensanti. Per analogia, in psicologia si fa ricorso a figure esterne, quali l’analista, il terapeuta o il counselor.
Ma allora come si diventa ciò che si è, significativo sottotitolo dato da Nietzsche all’opera Ecce homo (1888, Ecce homo. Come si diventa quel che si è. Roma 2011). Secondo Nietzsche, la singolarità dell’essere umano è un fattore personale e individuale che proviene dall’inconscio fuori dal tempo di tipo archetipico. È una forza superiore. È realtà inalienabile. La soggettività è energia che non si adatta, non si integra, non si normalizza. Nietzsche dice no all’altruismo se questo si umilia nel diventare anti-individuativo, in uno sconfortante plasmarsi sull’altro. Valorizza l’egoismo qualora venga inteso come ritorno a se stessi, regressione verso le proprie inclinazioni e la propria essenza di uomo. Nei Seminari sullo Zarathustra (1934-39, Lo Zarathustra di Nietzsche, vol. I, TO 2013) Jung afferma che Nietzsche, uomo e studioso dalla doppia personalità in forza della esasperata personificazione del Sé alla ricerca dell’archetipo individuativo, aveva correttamente intuito come il “diventare ciò che si è” fosse il manifesto programmatico di chi intende l’autorealizzazione come attuazione della soggettività. E che la soggettività o singolarità in quanto spontanea e piena adesione alla propria natura la raggiungono uomini fuori dell’ordinario, i cosiddetti super-uomini, che tali sono non perché si impongono sugli altri, ma perché affrontano i lati oscuri di loro stessi, prendono consapevolezza della loro stessa resistenza o forza verso quelle spinte interne ed esterne che si contrappongono alla realizzazione della loro unicità, l’individuarsi ovvero diventare un essere singolo e singolare, unico e particolare ovvero ancora a essere ciò che si è destinati ad essere (per evocare ancora una volta Hillman). Una conferma di quanto fin qui esposto, veniva parimenti anche dalla biologia teoretica intorno agli Anni Trenta del secolo scorso con von Bertalanffy (1932. Theoretische Biologie. Berlin: Gebr. Borntraeger) là dove lo scienziato afferma che l’autorealizzazione è l’insieme di quei processi ordinati che in ogni organismo sono finalizzati al completamento, alla conservazione e alla continuità di sé. Ma le osservazioni sopra riassunte furono di ispirazione anche per la psicologia umanistico-esistenziale. Si pensi alla self actualization di Maslow come bisogno di diventare pienamente sé stessi relazionandosi all’altro in forme individualizzate (1954,Motivazione e personalità, Roma 1973, p.36). E per concludere, come non citare la tendenza attualizzante con cui Rogers indica la naturale inclinazione nell’uomo verso il completamento e l’attualizzazione delle proprie potenzialità (1951/59, La terapia-centrata-sul-cliente. FI 1970, p.291).
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