Considerazioni preliminari:
la verità come s-velamento [Aletheia] – Il concetto di Velo nel sufismo – parte 11
Nella parte precedente abbiamo introdotto due concetti fondamentali, il parallelismo onto-conoscitivo esposto nel VI e nel VII libro della Repubblica e la verità come αληθεια, non velatezza che ci permette di analizzare un nucleo profondo della Tradizione metafisica. La verità, come espresso nel Mito della Caverna, rappresenta la fine di un percorso, di un viaggio ontologico, dell’ente attraverso i vari gradi di luce e opacità che separano l’essere umano dal Vero che tuttavia si mostra nascondendosi e si nasconde mostrandosi. Diventa cogente quindi ragionare intorno al concetto di velo aprendo il nostro orizzonte di ricerca alla tradizione islamica del sufismo, alla lettura dei Veda e della Cabala per trovare connessioni con il pensiero di Platone.
Il concetto di hijab
La dottrina islamica è interamente contenuta nel Tawhid, l’affermazione dell’Unità divina espressa in modo particolare attraverso la shahadah (Testimonianza) lâ ilâha ill-Allah [non vi è altra divinità fuorché Dio] la cui formula contiene da lato una distinzione tra l’altro-da-Dio e Dio stesso e dall’altro riconduce il primo al secondo. Se da un lato, quindi esprime la distinzione fondamentale, dall’altro definisce una identità essenziale poiché, secondo il concetto di Unità, la differenza può essere solo apparente. In tal modo la perfetta incomparabilità o lontanza (Tanzih) deve implicare anche il suo contrario, la vicinanza (Tashbih). I sufi affermano infatti che Dio è contemporaneamente l’inaccessibile (al-Batin) e il manifesto (al-zahir) che si ricollegano ai concetti fondamentali di al-Ahidiyah (l’Unità) e di al-Wâhidiyah (l’Unicità).
Al-Ahidiyah è Unità suprema, incomparabile e senza aspetti, non può essere conosciuta contemporaneamente al mondo quindi oggetto solo della Conoscenza divina e indifferenziata; la al-Wâhidiyah è, in un certo senso, in correlazione con l’universo della manifestazione, il modo in cui il divino si manifesta nel mondo. La distinzione tra Unità e Unicità è analoga a quella vedantica tra Brahma nirguna (al di là della qualificazione) e Brahma Saguna (il Brahma qualificato).
Sankara definisce il Brahman Nirguna per via apofatica attribuendogli appellativi negativi come Advitiya (senza secondo), Ananta (senza fine), Avisaya (senza oggettualità), Nirakara (privo di forma). Secondo il Bhradaranyakopanisad la modalità più adeguata è il Neti-Neti (né così – né così) in maniera tale che, eliminando ogni forma di differenziazione dovuta a forme limitative (ogni attributo o definizione è, stricto sensu, una limitazione), si possa parlare, in maniera comunque impropria, di un quid che non ha caratteri distintivi quali nome, forme, azione, alterità.
In forma analoga Platone, in quel grandissimo dialogo metafisico intitolato Il Parmenide, analizza le estreme conseguenze una volta che è ipostatizzato che “l’Uno è Uno” [137c4-142a8]. Se è veramente l’Uno, al pari del Brahman Nirguna, seguendo un percorso che ricorda molto da vicino il Neti-Neti, non ha parti (merê) e non è un intero (holon) costituito da parti; non possiede figura, né rettilinea né circolare; non si trova in qualcosa, né in se stesso né in altro da sé; non è né in movimento né in quiete; non è identico (tauton) né a se stesso né ad altro, e neppure è diverso (heteron) da se e da altro; analogamente non è simile (homoion) né a se stesso né ad altro e neppure dissimile (anomoion).
Queste riflessioni che aprono le porte alla teologia negativa (e alla via apofatica), ovvero alla concezione che sottrae al principio supremo della Realtà qualsiasi attributo, hanno influenzato in maniera eminente il Neoplatonismo. Scrive infatti Plotino riguardo all’Uno «quello che Egli non è – in riferimento all’Uno – ma non diciamo quello che è. Diciamo di lui partendo dalle cose che sono dopo di lui» [Enneadi, V,3], che anticipa la distinzione sufi tra al-Ahidiyah e al-Wâhidiyah.
La via apofatica, ben presente anche nel pensiero cristiano (Gregorio di Nissa, Atanasio di Alessandria, PseudoDionigi l’Aeropagita), ha tuttavia un insito pericolo, quello che i maestri sufi chiamano il ta’til, il rischio di un nichilismo teologico dato dalla negazione o annullamento degli attributi divini, un rischio opposto e complementare all’antropomorfismo dato dalla Tashbih, la vicinanza.
La gnosi sufi (in particolare Ibn Arabi e Ruzbehan Baqli di Shiraz), per dare una soluzione a questa problematica fondamentale, introduce il concetto di tajalli, teofania intendendo con questo termine l’atto attraverso cui il Reale (al-Haqq) si manifesta nei gradi dell’esistenza a partire dai nomi e attributi divini (tajalli sifati) fino alle forme del mondo sensibile (tajalli af’ali). Secondo Ibn Arabi l’intero cosmo è una teofania continua, una rivelazione senza fine delle forme dell’Essere che però non limita in alcun modo l’infinità di Dio che rimane nella sua trascendenza (tanzih) anche mentre si manifesta (tashbih).
Il prossimo passaggio sarà l’analisi del rapporto tra l’Unicità e gli Attributi (o nomi) divini e di come questi rappresentino una prima forma di velo, occultamento della Realtà dell’Unità.
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