Non lasciarmi – Scienza ed Etica
Allevare in una qualche provincia una schiatta di uomini nobili per natura, in cui l’intelligenza, capacità e probità fossero ereditarie. Una proposta che è in se stessa attuabile, ma che è impedita dalla più saggia natura, che proprio nella mescolanza di bene e male stanno i grandi impulsi che mettono in gioco le forze assopite dell’umanità e la costringono a sviluppare tutti i suoi talenti.
Kant, Delle diverse razze degli uomini in Scritti di storia, politica e diritto.
Non lasciarmi, film del 2010 diretto da Mark Romanek, appartiene al genere della distopia. Ambientato in un presente alternativo nel quale il progresso medico ha concesso a ogni essere umano una prospettiva di vita di oltre 100 anni. Tutto questo però è permesso dalla presenza di cloni utilizzati come serbatoi di organi.
Immerso nella campagna inglese, isolato dal resto del mondo, sorge il collegio di Hailsham. In questa struttura apparentemente idilliaca e grottescamente perfetta, vengono allevati, ignari del proprio destino, i futuri “donatori”. Tre di questi Kathy, Tommy e Ruth, sviluppano un legame che li accompagnerà per tutta la loro esistenza, fino al compimento dello scopo per il quale sono stati creati, l’essere pezzi di ricambio.
Una elegiaca malinconia, enfatizzata dal senso di una asettica fatalità, che decontestualizza il film da ogni coordinata spaziale e temporale, accompagna la vita dei protagonisti: non nati ma comunque esistenti, mai considerati davvero esseri umani, le possibilità di vita contratte a un’unica certezza nell’attesa di ricevere la notifica per la prima donazione degli organi.
In sottofondo, tuttavia, aleggia una domanda molto destabilizzante: quei cloni sono così diversi noi?
Il monologo finale di Kathy, poco dopo aver ricevuto la convocazione che pone atto allo scopo per cui è stata creata, avvalora questo angoscioso interrogativo: «Quello di cui non sono tanto sicura è che la nostra vita non sia così tanto diversa da quella delle persone che salviamo. Tutti completiamo un ciclo. Forse nessuno ha compreso totalmente la propria vita, ne sente di aver vissuto abbastanza».
Un film così denso di significati induce inevitabilmente a riflessioni di tipo esistenziale; tuttavia, è mia intenzione porre l’attenzione su un’altra tematica che, all’interno della trama, occupa uno spazio marginale ma altrettanto interessante. Si tratta del concetto di progresso.
Parlando agli studenti, la direttrice di Hailsham afferma: «C’è chi, a tutti i costi, cerca di ostacolarci. Siamo consapevoli che il vento non soffia verso il progresso, ma nella direzione opposta impedendo al nuovo di affermarsi».
L’idea di progresso ha una storia filosofica molto interessante. Implica anzitutto una concezione lineare della temporalità che rappresenta una rottura sostanziale e paradigmatica con il concetto di tempo ciclico tipico della cultura antica in particolare greco-romana, una ciclicità suddivisa in ere la cui successione rappresenta una decadenza. Si pensi, ad esempio, alla successione dell’età dell’oro – argento – bronzo – ferro elencate da Esiodo ne Le opere e i giorni o da Platone ne Il Politico (con i quali si può trovare un parallelismo con la scansione, nel pensiero indiano dei Veda, nella successione degli Yuga o Ere, Satya – Treta – Dvapara – Kali).
La rottura avviene nella filosofia della storia in ambito giudaico-cristiano che facendo corrispondere, in ambito escatologico, il fine (teleologia) con la fine della storia, impone un concetto di temporalità lineare e progressiva (si pensi ad esempio alla Civitas dei di Agostino di Ippona).
Fino al 1700 però non si riscontra una corrispondenza dell’idea del progresso con quella di evoluzione che, anche durante la rivoluzione scientifica del XVI secolo rimangono concettualmente divise: Francesco Bacone parla di vicissitudo rerum, Giambattista Vico di corsi e ricorsi storici. Pur nell’evoluzione lineare della storia si alternano periodi di decadenza (come i secoli bui del Medioevo) e periodi di progresso umano e scientifico (il Rinascimento e la rivoluzione scientifica). A livello filosofico troviamo per la prima volta la corrispondenza tra i due termini nelle opere degli Illuministi francesi del XVIII secolo in particolare in Condorcet nell’opera I progressi dello spirito umano. Prima che nel campo del pensiero, l’identificazione “progresso – evoluzione, avviene in ambito economico, nel concetto di profitto. Su questo concetto economico, nel XIX secolo si innesta il Positivismo di August Comte e di Herbert Spencer che, in maniera molto prematura attira l’ironia di Leopardi sulle Magnifiche sorti e progressive.
Posto che il concetto di progresso come evoluzione sia in realtà marginale se contestualizzato entro una storia filosofica, emerge tuttavia una domanda che il film ci pone e ci impone: esistono dei limiti etici, filosofici, religiosi al progresso? La sola possibilità tecnica (posto che l’essere umano ha raggiunto la tecnologia per eliminare se stesso) è una condizione sufficiente laddove questo va a cozzare contro tematiche che travalicano il mero sapere tecnico-scientifico?
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