Cosa vedo quando vedo? Vedo l’oggetto in sé e per sé? …un semplice manuale di psicologia della percezione mi dirà che il mio…
Percezione e Conoscenza (prima parte)
Vedi le altre parti dell’articolo di Nicola Carboni “Percezione e Conoscenza”
Quando apro gli occhi, percepisco il mondo che mi circonda in modo immediato, senza alcuno sforzo. Mi si presentano oggetti con una forma, dei colori; percepisco suoni e odori. Posso toccare e sentire se una superficie è liscia oppure ruvida. In questo momento ho davanti a me il monitor del pc. Lo schermo è di forma rettangolare, i bordi sono neri; per scrivere sto toccando i tasti. Interagisco con l’oggetto. Esiste. Come potrebbe non essere così: lo vedo, lo tocco. Dove sta il problema? Perché problematizzare qualcosa che è così ovvio? Se è così ovvio allora sarà facile rispondere alla domanda: cosa vedo quando vedo? Vedo l’oggetto in sé e per sé? Senza ricorrere a complessità filosofiche, un semplice manuale di psicologia della percezione mi dirà che il mio percetto non è l’oggetto reale. In quella che viene definita la catena psicofisica dobbiamo distinguere fra stimolo distale (l’oggetto fisico come insieme unitario di caratteristiche), lo stimolo prossimale (l’immagine retinica) e il percetto (l’oggetto della mia percezione). Quindi il percetto non è la cosa “reale”. Può esserlo con buona approssimazione, ma non è la cosa “reale”. Cosa vediamo quando vediamo? La risposta non è così ovvia come potrebbe apparire. L’obvius è ciò che si trova davanti, che ci è vicino, talmente vicino che non gli prestiamo attenzione. Il primo atto filosofico è il porre a tema ciò che è ovvio, porre una distanza con l’oggetto da esaminare per poterlo abbracciare meglio con lo sguardo. In questo articolo propongo un viaggio filosofico inerente al rapporto fra percezione e conoscenza. Si tratta quindi di un viaggio gnoseologico (per gnoseologia si intende quella parte della filosofia che indaga la natura della conoscenza), suddiviso in varie tappe che spazieranno dalla filosofia antica a quella moderna e a quella contemporanea con qualche deviazione verso le teorie della psicologia scientifica. Buona lettura.
PLATONE E IL TEETETO
Interrogato da Socrate su cosa sia l’επισήμη [episteme], la scienza intesa come un sapere certo di se stesso sul quale poter fondare la conoscenza, il giovane Teeteto, il personaggio che da titolo al dialogo, risponde l’αίσθανεσθι [Aisthanesthai], avere sensazione ovvero una affezione diretta e evidente che deriva dal fare attualmente esperienza di una determinata cosa.
Da un punto di vista psicologico possiamo definire la sensazione come l’impressione soggettiva, immediata e semplice che corrisponde a una data intensità dello stimolo fisico.
Se questo tipo di sensismo fosse limitato alla sola indagine fenomenologica puramente descrittiva, l’avere una sensazione, come atto intenzionale, non porrebbe alcuna difficoltà. Il filosofo e psicologo Franz Brentano ha definito l’intenzionalità la proprietà fondamentale di ogni atto coscienziale (sensazione, intellizione, volizione etc.): ogni pensiero è pensiero di qualcosa, ogni sensazione è sensazione di qualcosa. Questo “di qualcosa” è il correlato oggettivo. Il problema si pone quando dall’indagine fenomenologica si passa all’indagine gnoseologica e ontologica.
Ho una sensazione visiva il cui correlato oggettivo è un quaderno rosso. Una persona X affetta da daltonismo guarda lo stesso quaderno. Ovviamente anch’egli avrà una sensazione visiva il cui correlato oggettivo è lo stesso quaderno tuttavia non rosso, ma verde.
Per entrambi la sensazione è vera; ma cosa possiamo asserire riguardo al quaderno? È rosso? È verde? Può essere sia rosso che verde?
Se assumessimo, al pari di Teeteto, il sensismo come criterio di verità, ovvero che il quaderno è rosso per me che lo vedo rosso ma al tempo stesso è verde per colui che lo vede verde, dovremmo fare riferimento alla teoria del fenomenismo che ha le sue origini nell’ Homo mensura di Protagora “quale ciascuna cosa a me appare [φαινεται], tale è per me; e quale a te appare tale anche per te è“. In altre parole significa ricondurre le cose allo status ontologico di fenomeno.
L’espressione greca φαινόμενον [phainomenon] deriva dal verbo φαίνεσθαι [phainesthai] “manifestarsi”; possiamo tradurre il termine come ciò che si manifesta nell’atto del manifestarsi e che, nel far questo, mostra un aspetto, si presenta alla “luce di” [φαίνεσθαι è forma media del verbo φαίνω (phaino) illuminare, porre in chiaro].
L’equivalenza gnoseologica tra sensazione e scienza ha un’altra importante conseguenza a livello ontologico. Se la validità epistemica della sensazione dipende dalla riduzione dell’essere a fenomeno (le cose sono come appaiono) allora, seguendo l’argomentazione platonica, dobbiamo postulare che la realtà sia un processo o, come teorizzava Eraclito, un divenire universale per il quale la realtà sia, momento dopo momento, ciò che appare. Il fenomenismo protagoreo si fonda, in ultima analisi, sull’eraclistismo. In sé nulla è uno e medesimo, ma continuamente cangiante.
Come spiegare le qualità sensibili? Immaginiamo di vedere un oggetto bianco. Se il colore bianco fosse, in sé e per sé, qualche cosa, nell’occhio che lo percepisce o una proprietà inerente all’oggetto percepito si violerebbe il principio del divenire universale poiché qualcosa assumerebbe una determinatezza che lo svincolerebbe dallo status di fenomeno. Dobbiamo postulare due movimenti, dall’oggetto verso il soggetto e dal soggetto verso l’oggetto. Solo dall’incontro di questi due poli nasce la percezione infatti, rispetto al colore bianco dobbiamo analizzare due aspetti, uno oggettivo, la bianchezza che “riveste” il corpo che mi appare bianco, l’altro soggettivo, la sensazione di bianchezza di cui è affetto l’occhio che vede. Non può esistere una qualità visibile senza un occhio che la percepisca. Platone sottolinea una inscindibile correlazione tra qualità oggettiva e sensazione soggettiva: nessun colore si produce se non contemporaneamente a una sensazione di colore. La mia sensazione di bianchezza e il colore bianco nascono dall’incontro del mio occhio con l’oggetto.
Presupponendo la verità del divenire universale che, in ultima analisi, fonda sia il sensismo che il fenomenismo, dobbiamo pensare che ad ogni intervallo di tempo t, abbiamo una sensazione di qualità che, per stessa definizione del movimento, non potranno mai essere completamente uguali: ad un t₁ avrò una sensazione A₁ di una qualità α₁; ad un t₂ avrò una sensazione A₂ di una qualità α₂. Sebbene non ci accorgiamo del cambiamento, la sensazione cambia impercettibilmente.
Questa riflessione platonica è straordinariamente moderna. Anche la psicologia della percezione si è posta il problema di come sia possibile, a dispetto delle continue variazioni delle stimolazioni prossimali di forma, grandezza, intensità luminosa, percepire un mondo sostanzialmente stabile (costanze percettive).
Quali sono le conseguenze del tentativo di fondare l’episteme, un sapere certo di se stesso, sulle basi dell’eraclitismo più radicale? Se tutto muta e nulla rimane se stesso nemmeno per un momento allora anche la sensazione, a sua volta continuamente cangiante, non può essere scienza. Se assumessimo come veri i presupposti fin qui analizzati, significherebbe togliere la possibilità della conoscenza.
A livello verbale, rimanendo a livello sensistico, usiamo “essere” in maniera impropria ogniqualvolta affermiamo che un generico ente, sia; da un punto di vista ontologico sarebbe più corretto dire “diviene”. Questo significa precludere all’essere umano la possibilità del retto pensare e del retto parlare, ovvero essere custode di un Logos (una razionalità sostanziale e immanente all’ente stesso e di cui ogni ente, in ogni sua forma di manifestazione, ne è testimone) attraverso una categorizzazione del reale che sia al tempo stesso tassonomica e assiologica.
Si pone un’ulteriore domanda, anch’essa apparentemente banale. Con cosa vediamo quando vediamo? O con cosa udiamo quando udiamo? In maniera frettolosa si potrebbe rispondere, con gli occhi e con le orecchie. Ma questo “con” si deve intendere “per mezzo di” oppure “mediante”?
Se, come è più corretto, affermiamo che vediamo mediante gli occhi, allora significa che esiste un qualcosa che si avvale dei recettori corporei oculari, per poter “costruire” il percetto, ovvero postuliamo la presenza di una parte attiva che sviluppa, organizza e codifica quegli stimoli sensibili che rappresentano le affezioni verso i quali l’essere umano, nell’atto della sensazione, è puramente passivo. Per Platone questo qualcosa che svolge funzione di hegemonikon, principio attivo e direttivo, è la ψυχή [psiche], l’anima.
Immaginiamo di avere tra le mani un fiore. Mediante gli occhi vedo il colore, mediante il naso ne sento il profumo, mediante il tatto tocco i petali. Dalla psicologia sappiamo che ogni modalità sensoriale è sensibile in maniera specifica e definita alle manifestazioni e alle variazioni di una determinata forma di energia fisica. Il sistema uditivo è sensibile alle variazioni della pressione dell’aria (suoni, rumori); il sistema visivo è sensibile a determinate frequenze di energia elettromagnetica (la luce); siamo capaci di rispondere soltanto a quelle forme fisiche di stimolazione per le quali abbiamo a disposizione particolari apparati recettivi (o organi di senso) in grado di captarle e riceverle.
Con cosa giudichiamo allora che quelle qualità diverse ineriscono allo stesso oggetto? Queste idee di “essere”, “unità”, “diversità” che non sono colte mediante un organo sensoriale, nascono, secondo Platone, dall’attività della ψυχή per suo atto riflessivo, la διανοείσθαι [dianoeisthai], un pensare sulle cose, un rifletterci per ragionarci sopra, partendo dai dati sensoriali, ma non mediante i sensi. Le diverse qualità sensibili sono sentite mediante gli organi ad esse preposte, ma saranno pensate unitariamente, con un atto noetico. Questo processo che possiamo definire una idealizzazione del dato sensibile, che fa del dato sensibile l’oggetto del giudizio mediante un atto autoriflessivo dell’anima, conduce Platone all’elencazione dei generi generalissimi intesi come idee a priori: l’essere, l’identico, il diverso, il simile, il dissimile, il numero.
«Ma per Zeus, o Socrate – afferma a questo punto del dialogo Teeteto – non saprei che dire, eccetto che a me sembra che il principio sia, non esservi per queste cose nessun organo appropriato, ma da sé, mediante se stessa, l’anima mi pare indaghi, su tutte le cose, ciò che è comune».
Mentre le qualità sensibili si rivelano naturalmente e senza sforzo, i giudizi sull’essere delle cose, le loro relazioni, il loro valore, dipendono da atti di riflessione dell’anima.
Se ad esempio con il tatto tocco due superfici, una dura e una molla, avvertire la sensazione è ufficio dell’organo di senso, ma giudicare cosa sia la durezza e la mollezza e che tra esse sono contrarie, è un atto mentale.
La conclusione necessaria è che la semplice e immediata apprensione che i sensi fanno delle qualità sensibili, non può essere la base di una conoscenza che possa definirsi episteme.
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