Quando un uomo piange.
Universi emozionali del pianto nel maschio adulto
(parte prima)
Da tempo ormai il pianto non è più monopolio femminile. È vero che le donne tendono a piangere di più, e più spesso, degli uomini, ma l’educazione familiare, il contesto storico-politico e le aspettative culturali dimostrano di avere un ruolo fondamentale sulla frequenza e sull’intensità del pianto in entrambi i sessi. Sia le donne che gli uomini tendono a considerare il pianto un’espressione comportamentale tipicamente femminile molto più di quanto non lo sia nei fatti. È pensiero comune che il pianto di una donna venga più facilmente tollerato di quello di un uomo; ma se questo corrisponde al vero, è altresì un fatto accertato che il pianto maschile risulti oggi meno inaccettabile o più dignitoso di quanto si creda. Quando un uomo piange, riversa nelle lacrime l’emozione di sentirsi vulnerabile e pauroso, cosa assolutamente da evitare fino a qualche decennio fa. La donna, per contro, piange spesso per rabbia.
Il senso di impotenza
Nella cultura occidentale (ma non solo) chi piange tende ad essere visto come un perdente, perciò si insegna ai bambini maschi a trattenere o rimandare le lacrime riservandole a occasioni intime e private. Piangere in pubblico farebbe apparire l’adulto maschio un essere impotente e indifeso come un bambino o una donna. Un soldato non piange, così, per estensione, un uomo non deve piangere anche se arrabbiato. Ma nel pianto di rabbia la sofferenza esprime non la rabbia in sé bensì quella del senso di impotenza al bisogno di manifestare la rabbia stessa. E questo capita anche ai maschi. È comunque pur vero che il pianto di rabbia sia più frequente tra le donne che tra gli uomini. Le donne hanno meno dimestichezza con comportamenti violenti e conflittuali, e trovando una certa difficoltà ad esprimere ostilità diretta, sono più inclini al pianto. [Il fenomeno delle baby-gang al femminile e il conseguente bullismo tra ragazze sta modificando tangibilmente questo dato]. Insomma, quando predomina il senso di impotenza per non riuscire ad esprimere la rabbia, quando predomina la rinuncia a opporre resistenza e a contrattaccare, ovvero quando la rabbia viene trattenuta e non espressa, ecco che esplode il pianto, cosa che accade anche nei maschi.
La causa che sta alla base del pianto è la percezione di impotenza che implica sempre una qualche frustrazione e sofferenza.
Si piange per chiedere aiuto, ma anche per protestare o accusare. Si piange di dolore, per la perdita di una persona cara (lutto e abbandono), per un fallimento, un conflitto, una delusione, perché ci si sente in colpa, per scoraggiamento. Ma si può piangere anche di gioia, sollievo, soddisfazione, per esultanza. Si diceva della percezione di impotenza alla base del pianto. Quando il dolore fisico, ad esempio, risulta insopportabile e anche il macho più testardo non riesce ad opporgli resistenza (a combatterlo, ridurlo o sopprimerlo), ecco che scoppia il pianto. Se la minaccia di un fallimento può indurre a senso di impotenza e pianto (lo studente ansioso e in crisi), a maggior ragione il fallimento scoraggiante, quella sensazione che il tentativo messo in atto per raggiungere uno scopo è fallito, induce al pianto, perché l’individuo prova la paura di sentirsi vulnerabile. Il gradino successivo, forse anche più manifesto, è quello della frustrazione, come si vede bene nei tifosi di uno sport (e in parte anche negli atleti stessi) e nei manager della finanza. Si ha frustrazione quando lo scopo perseguito è compromesso o mancato. La frustrazione provoca maggiore sofferenza rispetto al fallimento sia per lo spreco di risorse e impegno profusi, sia per la maggiore delusione delle aspettative (positive) riposte nell’impresa. Lo scoraggiamento qui è tale che fa vacillare l’autostima e provoca la straniante sensazione di inefficacia e inefficienza.
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