Platone e l'Orfismo – parte 1 - di Nicola Carboni

Platone e l’Orfismo – parte 1

Immergersi nella componente Metafisica del pensiero platonico significa, dopo aver introdotto la problematica delle Dottrine non scritte, analizzare il rapporto tra il filosofo e la tradizione iniziatica greca per eccellenza, ovvero l’Orfismo…
 

Platone e l’Orfismo – parte 1

Immergersi nella componente Metafisica del pensiero platonico significa, dopo aver introdotto la problematica delle Dottrine non scritte, analizzare il rapporto tra il filosofo e la tradizione iniziatica greca per eccellenza, ovvero l’Orfismo al cui riguardo lo stesso Giovanni Reale scrisse che «il suo messaggio costituisce un asse portante del pensiero filosofico dei Greci…Ora senza l’Orfismo noi non spiegheremmo Pitagora, non Eraclito, non Empedocle, e , naturalmente, non Platone e quanto da lui deriva…Sarà proprio la sollecitazione della Visione orfica a portare Platone a intraprendere la sua seconda navigazione [τόν δεύτερον πλούν, Fedone 99D] cioè a intraprendere quella via che lo porterà a scoprire il mondo del sovrasensibile»[1].

L’Orfismo è un movimento religioso-misterico sorto in Grecia presumibilmente verso il VI secolo a.C. intorno alla figura mitica di Orfeo, considerato il fondatore. Con l’Orfismo si ha per la prima volta, nell’Europa mediterranea, una visione metafisica dell’Essere come trascendente la natura attraverso due grandi innovazioni nel pensiero religioso greco ovvero il concetto di immortalità dell’anima e dello sforzo di liberazione/realizzazione per uscire dal ciclo delle reincarnazioni.

Questa concezione rivoluzionaria porta l’uomo da relativo elemento tellurico-titanico a dignità divina. Tutte le tradizioni misteriche (orfismo e Misteri Eleusini) sostengono infatti l’identità dell’Anima umana con la natura divina e quindi la liberazione di tale anima dal ciclo delle rinascite come la Pienezza finale dell’essere, quello che i Rosacrociani chiamarono la Pax Profunda, dovuta all’estinzione (secondo il sufismo al – fanâ ovvero l’estinzione dei limiti individuali nello stato di unione con il divino) e alla sussistenza (al-baqâ).

Nella misura in cui Platone fonda filosoficamente, su base orfica, nel Gorgia e nel Fedone il concetto di anima, opera di conseguenza, una vera e propria rivoluzione dei valori, in modo strutturale. Nel Gorgia, un dialogo che apparentemente ha come oggetto la retorica e la politica, ma che invece ha come nucleo la domanda su quale sia il miglior modo di condurre la vita, Platone opera quella che Nietzsche avrebbe definito una trasvalutazione di tutti i valori della società ateniese del tempo. Dice infatti Callicle, il vero antagonista di Socrate, esponente dei valori che hanno creato una società completamente sbagliata (e il peccato della società è manifesto per Platone dall’uccisione dell’unico uomo giusto, il suo maestro Socrate) «Perché se parli seriamente – riferito a Socrate – allora sembra proprio che tutta la vita di noi uomini sia capovolta e che noi facciamo il contrario di quello che dovremmo»[2][Gor. 481C6-9]. Questa trasvalutazione, che assume connotati etici, epistemologici, educativi e politici, è possibile attraverso una rilettura  dell’assunto orfico dell’immortalità dell’anima, come scintilla divina nell’uomo e del giudizio ultraterreno così come espresso nei miti escatologici a conclusione del Gorgia e presenti nel Fedone e nel mito di Er a conclusione della Repubblica. In tale contesto l’anima diventa responsabile di ogni atto compiuto nel corso della vita. In questo dialogo, infatti, Platone elenca quali sono i quattro grandi mali dell’anima: ingiustizia, ignoranza, viltà e intemperanza ovvero tutto ciò che fa legare a piaceri temporanei legati alle passioni e all’aspetto corporale. L’aspetto rivoluzionario del Gorgia è l’impostazione di tutta l’esistenza in virtù di una vita vissuta in conformità dell’anima e di ciò che è dell’anima, ossia vivere in conformità di un Ordine «ciò che rende una cosa buona è un ordine che si viene a creare in essa e che le è proprio…perciò un’anima che abbia un suo proprio ordine è migliore di un’anima disordinata…e un’anima ordinata è temperante …dunque buona [Gor. 506E6-9]. La virtù dell’anima è conformarsi ad un Ordine di cui è testimone e di cui è riflesso, poiché è riflesso del divino che si specchia nell’anima individuale. Questo stesso concetto possiamo ritrovarlo nell’induismo nel rapporto tra Atma (Sè universale) e jivatma, l’anima individuale ossia la manifestazione particolare del Sé nella vita. Mentre il jivatma è l’anima individuale impegnata nel campo dell’azione e delle sue conseguenze (il Karma), l’Atma è l’incondizionato, la pura Gnosi Metafisica.

Anche  Platone nel Gorgia, nel mito escatologico a conclusione del dialogo, laddove parla del giudizio che avranno le anime, sembra introdurre il concetto di Karma. Con questo termine nell’induismo si intende il frutto delle azioni compiute da ogni vivente che influisce sia sulla diversità delle rinascite nella vita susseguente, sia sulle gioie e i dolori nel corso di essa. «ciascuna azione lascia un marchio nell’anima; vede che tutto è distorto per l’abitudine alla menzogna e all’insolenza e che non c’è niente di diritto in essa, perché è cresciuta lontano dalla verità; vede che l’anima è tutta sproporzionata e sgraziata, a causa del suo comportamento licenzioso, molle, violento e scostumato» [Gor, 525a1-3]. E nel Fedro «Fra tutti costoro, poi, chi ha condotto la vita in modo giusto, riceve una sorte migliore, mentre chi ha condotto una vita in modo ingiusto, riceve una sorte peggiore» [Fedro, 248e7-8].

Dall’Orfismo Platone accoglie la  visione misterica dell’uomo come Anima intelligibile con una responsabilità ben precisa, con il dovere immediato di educarsi, conoscersi, essere attraverso l’imperativo di vivere una vita conforme alla Legge universale o divina e, conseguentemente, ri-trovare la propria origine sovrasensibile. Nel Timeo Platone, infatti, scrive «Per quanto riguarda poi la forma di anima che in noi è la più importante, bisogna rendersi conto che il Divino l’ha data a ciascuno come un demone. È questa la forma di anima che noi diciamo che abita nella parte superiore del corpo e che dalla terra ci innalza verso la realtà che ci è congenere nel cielo, in quanto noi siamo piante non terrestri ma celesti. Infatti, tenendo sospesa con la testa la nostra radice, proprio là dove l’anima ha tratto la sua prima origine, la divinità erige tutto quanto il nostro corpo» [Timeo, 90a3-12].

Nella prospettiva orfica e platonica, il corpo diventa un fattore di ostacolo per il processo di realizzazione e di liberazione che l’uomo ha come compito in questa vita. Nel Fedone Platone scrive «fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità» [Fedone, 66B7-10]. Infatti, come abbiamo visto nella Lettera VII la ricerca della verità è possibile solo quando l’anima, separandosi dai vincoli del mondo esterno, cerca solo in se stessa.

«Ma risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime» [Fedone, 66D10-12]I dati provenienti dai sensi, la percezione sensibile, vincolandoci all’aspetto fenomenico delle cose, è il più grosso ostacolo verso il processo anagogico, laddove si consideri il livello fenomenologico come la Realtà. Questo, come vedremo più avanti, è il massimo grado di ignoranza, o usando un termine sanscrito, Advidya.

Poiché secondo Platone (e secondo ogni Tradizione metafisica) ogni aspetto del reale è collegato, gli effetti nefasti del corpo non si riducono all’aspetto meramente conoscitivo, ma si espandono fino a travolgere quello etico, sociale e politico. «In effetti, guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni» [Fedone, 66C7-9].

Il corpo diventa quindi una sorta di ostacolo e prigione per la vera Gnosi. «Coloro che amano il sapere sanno che la filosofia, prendendo la loro anima interamente legati ai lacci del corpo e  essa congiunta, costretta a considerare gli esseri mediante il corpo, come attraverso una prigione, non da se stessa e per se stessa, e avvolta in ogni forma di ignoranza» [Fedone 173E1-5].

Allo stesso modo nel Cratilo afferma «Difatti alcuni dicono che il corpo è la tomba [sema] dell’anima, quasi che essa vi sia presentemente sepolta: e poiché d’altro canto con esso l’anima esprime tutto ciò che esprime…Tuttavia mi sembra che siano stati soprattutto i seguaci di Orfeo ad aver stabilito questo nome, quasi che l’anima espii le proprie colpe che appunto deve espiare [ciclo Karmico] e abbia intorno a sé, per essere custodita, questo recinto, sembianza di una prigione. Tale carcere è custodia dell’anima fino a che essa non abbia finito di pagare i suoi debiti, e non c’è nulla da cambiare, neppure una sola lettera» [Cratilo, 400c], quello che nell’induismo si chiama Moksha, ovvero la Liberazione intesa come l’affrancamento definitivo dell’essere.

[1] G. Reale, Storia della filosofia, vol I, Vita e Pensiero, Milano
[2] Platone, Gorgia, Bur, Milano, 2000, p. 161

Nicola Carboni

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